Cardiovascular Disease
News (Medical)

Author: monica mangioni
Date: 30/01/2008

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Insufficienza cardiaca: possibile nuova patogenesi

E' stata suggerita una nuova possibile via nello sviluppo dell'insufficienza cardiaca, osservando che nei soggetti che la sviluppano sono presenti elevati livelli della proteina nota come resistina. Tale proteina, prodotta dal tessuto adiposo, risulta fortemente associata alla comparsa di nuovi casi di insufficienza cardiaca, tramite un meccanismo ancora tutto da esplorare. Essa dunque può essere considerata un nuovo marcatore di rischio di insufficienza cardiaca, anche se non è stato ancora possibile stabilire se il suo ruolo sia causale o meno. Obesità ed insulinoresistenza sono connesse a maggiori tassi di insufficienza cardiaca, tramite meccanismi non ancora ben compresi. Nei soggetti obesi, inoltre, il tessuto adiposo è infiltrato di macrofagi infiammatori in misura molto maggiore rispetto a quelli di peso normale, e questi macrofagi secernono resistina. Il ruolo predittivo di questa proteina rimane indipendente anche tenendo conto dei livelli di CRP, il che è rilevante in quanto si tratta di due marcatori di infiammazione: ciò suggerisce che la resistina possa avere sul cuore effetti indipendenti dall'infiammazione. Probabilmente è presto per pensare a farmaci anti-resistina, ma se il suo ruolo verrà confermato, la ricerca in questo senso potrebbe portare anche allo sviluppo di nuove strategie preventive per l'insufficienza cardiaca. Vi è ancora molto da imparare sulla complessa interrelazione fra disglicemia, obesità ed insulinoresistenza, ma il loro impatto sul sistema cardiovascolare sta divenendo sempre più chiaro, e l'infiammazione sta emergendo come possibile meccanismo unificante. Le ricerche interdisciplinari in corso auspicabilmente porteranno ad una migliore comprensione di questi fattori di rischio emergenti e dei potenziali target terapeutici che consentiranno di osservare il quadro completo in luogo di frammenti separati. (J Am Coll Cardiol 2009; 53: 754-62 e 763-4

Insufficienza cardiaca: perdita di peso e mortalità
La magrezza e la perdita di peso sono importanti fattori predittivi di una prognosi infausta nei pazienti con insufficienza cardiaca cronica. Diversi studi in questo campo hanno dimostrato che i pazienti magri vanno incontro ad una scarsa sopravivenza, a differenza di quelli obesi, il cui rischio non aumenta: ciò ha portato a coniare il termine "paradosso dell'obesità", derivato in realtà dagli effetti deleteri della cachessia in questi pazienti. Una buona gestione del paziente con insufficienza cardiaca richiede un monitoraggio continuo delle variazioni del peso nel tempo, comportando un incremento della vigilanza specialmente quando si rileva una perdita di peso superiore al cinque percento, in quanto ciò indicherebbe la presenza di cachessia. (Eur Heart J 2008; 29: 2641-50)

Medicina interna
Fattori che influenzano la metabolica
La massa ventricolare sinistra ed il relativo spessore delle pareti cardiache risultano incrementate nei pazienti con sindrome metabolica, e sono correlate all'insulinoresistenza. Si ipotizza che l'obesità ed i tratti metabolici che la accompagnano come l'insulinoresistenza e gli elevati livelli insulinici compensatori contribuiscano alla crescita del ventricolo sinistro, ma è stato finora difficile sciogliere questi effetti da quelli della pressione, a causa delle limitazioni degli studi precedenti. Ora è stato dimostrato però che l'obesità può avere effetti negativi sul cuore diversi da quelli mediati dalla pressione. Se ciò verrà confermato, l'insulinoresistenza potrebbe essere aggiunta alla breve lista dei fattori determinanti della geometria ventricolare sinistra indipendenti dal carico emodinamico, insieme agli altri fattori neuroormonali come le componenti del sistema renina-angiotensina-aldosterone. (Heart 2008; 94: 874-8)

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Cardiologia
Gli omega-3 nell'insufficienza cardiaca
L'integrazione degli acidi grassi omega-3 potrebbe non essere prudente nei pazienti con disfunzione ventricolare sinistra. I pazienti con insufficienza cardiaca presentano un'alterazione del profilo degli acidi grassi dei globuli rossi ed un elevato livello di acidi grassi omega-3. Inoltre, l'indice omega-3 dei globuli rossi predice la comparsa di aritmie ventricolari in questi pazienti. Gli studi epidemiologici supportano l'effetto protettivo degli acidi grassi omega-3 contro la morte improvvisa di natura cardiaca, ma comunque i pazienti con cardiopatie strutturali e defibrillatori impiantabili non rispondono in alcun modo, o lo fanno addirittura in senso proaritmico, alla somministrazione di olio di pesce. Studi su animali inoltre suggeriscono che gli acidi grassi omega-3 circolanti ed incorporati non abbiano gli stessi effetti elettrofisiologici. E' stato dimostrato che la somministrazione di questi acidi grassi riduce la mortalità complessiva e quella da aritmie nei pazienti senza insufficienza cardiaca, ma ciò non può essere esteso ai pazienti con una funzionalità ventricolare sinistra danneggiata. Si ipotizza che la fibrillazione ventricolare dovuta ad insufficienza cardiaca sia associata ad un profilo di acidi grassi diverso da quello della stessa aritmia dovuta ad infarto miocardico. (Am Heart J 2008; 155: 971-7)

Fibrillazione familiare: ruolo del gene ANP
Una mutazione nel gene che codifica il peptide natriuretico atriale (ANP) è responsabile della fibrillazione atriale ereditaria. La mutazione è stata individuata studiando una famiglia in cui 11 membri presentano questa aritmia. Il peptide che ne deriva è in grado di effettuare azioni elettrofisiologiche che predispongono l'atrio alla fibrillazione. Ciò offre un potenziale nuovo target per la farmacoterapia nella fibrillazione atriale. E' anche possibile che l'ANP normale o il suo recettore possano essere in qualche modo manipolati nei soggetti con forme più sporadiche della malattia. A livello genetico, inoltre, questi dati offrono anche una potenziale finestra per la diagnosi precoce della fibrillazione atriale prima dello sviluppo della malattia conclamata. (New Engl J Med 2008; 359: 158-65)

Pneumologia
Ventilare l'edema non abbatte mortalità
Quale trattamento per l'edema polmonare cardiogeno acuto, la ventilazione non invasiva migliora la funzionalità respiratoria più rapidamente dell'ossigenoterapia standard, ma ciò non si traduce in un vantaggio in termini di sopravvivenza a breve termine. Entrambe le strategie comunque non sono correlate a particolari effetti collaterali. Alla luce di questi dati, la ventilazione non invasiva andrebbe considerata una terapia aggiuntiva nei pazienti con edema polmonare cardiogeno acuto che presentano un grave stress respiratorio o le cui condizioni non migliorano con la terapia farmacologica. (N Engl J Med 2008; 359: 142-51)

Neutrofili elevati peggiorano prognosi infarto
Nei pazienti sottoposti a terapia fibrinolitica per STEMI, un'elevata conta dei neutrofili di base è associata ad un peggior quadro angiografico, ad un aumento della mortalità ed ad una diminuzione della risposta alla terapia. Si tratta di un dato non immediatamente intuitivo, in quanto le cascate di fenomeni alla base di trombosi ed infiammazione spesso si sovrappongono. L'interazione con le terapie richiederà ulteriori convalide in ricerche future, ma i dati riscontrati rinforzano comunque il ruolo centrale dell'infiammazione nell'aterotrombosi, e supportano le terapie mirate contro i leucociti nei pazienti con coronaropatie acute. (Eur Heart J 2008; 29: 984-91)

Disfunzione erettile e rischio cardiovascolare
Negli uomini diabetici con disfunzione erettile, il rischio cardiovascolare è ancora maggiore rispetto ai pazienti affetti solo da diabete: la disfunzione erettile dunque dovrebbe essere considerata un potente segnale d'allarme precoce per il rischio di infarto e di altri gravi eventi cardiovascolari nei pazienti diabetici. Il trattamento con PDE-5 potrebbe ridurre l'incidenza di eventi cardiovascolari maggiori negli uomini con disfunzione erettile e diabete. Nella maggior parte del mondo è difficile per i soggetti di sesso maschile sollevare il problema della disfunzione erettile, e pertanto è importante informare i pazienti sulle sue potenzialmente gravi conseguenze in modo che essi possano riferire il problema al proprio medico. (J Am Coll Cardiol 2008; 51: 2045-50, 2040-4 e 2052-2)

Retinopatia diabetica predice insufficienza cardiaca
La retinopatia diabetica è un fattore di rischio indipendente di insufficienza cardiaca, il che supporta la teoria secondo cui la microvasculopatia svolga un ruolo nello sviluppo dell'insufficienza cardiaca nei diabetici. Ciò peraltro potrebbe avere importanti implicazioni a livello clinico. Le linee guida attualmente in vigore identificano già la necessità dello screening di routine della retinopatia nei pazienti diabetici. Oltre ad un'adeguata assistenza oftalmologica, il rilevamento della retinopatia dovrebbe ora dare luogo ad una più piena valutazione cardiaca ed ad un monitoraggio più stretto per la prevenzione dell'insufficienza cardiaca. (J Am Coll Cardiol 2008; 51: 1573-80)

Glicemia a digiuno indica il rischio ischemico
Elevati livelli glicemici a digiuno nei pazienti diabetici sono fortemente associati ad un aumento del rischio di ictus ischemico incidente ed eventi vascolari. I dati degli studi randomizzati non sono sufficienti per raccomandare uno stretto controllo della glicemia a digiuno nei diabetici per la prevenzione primaria dell'ictus, ma il presente studio potrebbe sopperire a questa mancanza. Il presente studio prospettico, insieme ad altri, prova che livelli glicemici a digiuno controllati e mirati nel diabetico sono associati ad una riduzione del rischio macrovascolare, che comprende sia l'ictus ischemico che altri eventi vascolari. (Diabetes Care online 2008, pubblicato il 13/3)

Iperglicemia e coronaropatie acute
Sono necessari studi per accertare gli effetti dell'iperglicemia nei soggetti con coronaropatie acute, dato che in questo campo sono presenti grandi lacune e che l'iperglicemia e riconosciuta e/o trattata con poca costanza in questi pazienti. Nei molti pazienti che soffrono di coronaropatie acute infatti ci si concentra solo sulla ricanalizzazione delle coronarie, ma si ignorano gli altri fattori prognostici. Vi sono molte prove del fatto che l'iperglicemia sia un problema frequente nei pazienti con coronaropatie acute all'atto del ricovero in ospedale (25-50 percento dei casi), ma benchè essa sia legata ad un aumento della mortalità, viene comunque frequentemente ignorata. (Circulation online 2008, pubblicato il 26/2)

Il colesterolo rischioso per placche carotidee
Nei soggetti asintomatici con ispessimento delle pareti vasali, il livello di colesterolo è fortemente associato alla presenza di un nucleo lipidico nella placca, e pertanto di vulnerabilità alla rottura. La presenza di un nucleo lipidico, composto di depositi tissutali morti adiposi all'interno di una placca arteriosclerotica, pone la placca a rischio di causare un evento clinico negativo come un ictus se la placca si trova nella carotide, o un attacco cardiaco se si trova in una coronaria. Il presente studio suggerisce che il livello di colesterolo sia il più importante fattore di rischio di sviluppo di questa pericolosa caratteristica della placca. Ciò supporta la nozione secondo cui la riduzione del colesterolo prevenga la sua formazione e riduca il rischio di un evento clinico del genere. (Stroke 2008; 39: 329-35)

Attività fisica diminuisce rischio mortalità
Effettuare attività fisica almeno tre ore alla settimana è associato ad una diminuzione del 27 percento nel rischio di mortalità. Attualmente si raccomandano 30 minuti di attività moderata nella maggior parte dei giorni della settimana, il che è possibile per la maggior parte delle persone, ma non era stato finora completamente compreso se queste raccomandazioni siano correlate a benefici sulla mortalità. Il presente studio suggerisce che se ne potrebbero osservare anche con livelli di attività inferiori rispetto a quelli suggeriti, e che ogni tipo di attività fisica per i soggetti attualmente sedentari rappresenta un'importante opportunità di diminuire il rischio di mortalità. ( Arch Intern Med. 2007; 167: 2453-60 )

Forma fisica associata a riduzione mortalità
Uno dei più grandi studi che abbiano mai connesso la capacità d'esercizio al rischio di mortalità dovrebbe motivare i medici a prestare attenzione alla capacità d'esercizio del paziente quanto agli altri fattori di rischio principali: il rischio di mortalità infatti risulta ridotti del 13 percento per ogni equivalente metabolico (MET) in più di capacità d'esercizio, e negli uomini con la capacità d'esercizio maggiore il rischio di mortalità risulta ridotto del 70 percento. In un'epoca in cui i costi sanitari di ogni tipo sono in costante aumento, è rimarchevole notare come una semplice passeggiata di 30 minuti alla settimana possa portare a benefici sostanziali per la sopravvivenza. (Circulation online 2008, pubblicato il 22/1)

Dormire bene allunga la vita
Variazioni significative rispetto alle normali abitudini relative al sonno, sia in eccesso che in difetto, incrementano il rischio di mortalità: diminuire il sonno notturno al di sotto delle sei-otto ore raddoppia il rischio di morte per cause cardiovascolari, ed aumentarlo al di là delle sette-otto ore raddoppia il rischio di mortalità per cause non cardiovascolari. Nel complesso, avere abitudini regolari di sei-otto ore di sonno e mantenerle nel tempo protegge dalla mortalità prematura. Il legame fra questi fenomeni non è ben chiaro. Lunghi periodi di sonno sono associati alla depressione, e questo può essere oggetto di ulteriori indagini, ma più in generale variazioni nelle abitudini relative al sonno potrebbero essere marcatori di patologie sottostanti. ( Sleep. 2007; 30: 1659-66 )

Lo sport allontana trombosi ed embolie
I soggetti che fanno attività sportiva su base regolare presentano un minor rischio di sviluppare trombosi venosa profonda della gamba ed embolia polmonare. La stasi ematica è una delle principali cause della trombosi venosa, ma poco era finora noto sugli effetti della stimolazione del flusso ematico per la prevenzione della trombosi: diversi studi hanno dimostrato la presenza di uno status coagulativo più sano nei soggetti che fanno esercizio regolarmente, il che suggerisce un possibile effetto benefico sul rischio di trombosi. In base al presente studio, tutte le attività sportive di ogni tipo, intensità e frequenza diminuiscono il rischio in misura simile. ( J Thromb Haemost. 2007; 5: 2186-92 )

Emoglobina predice mortalità
Variazioni significative nel tempo dei livelli di emoglobina sono fortemente ed indipendentemente associate ad un aumento del rischio di morte nei pazienti che ricevono emodialisi cronica a causa di nefropatie terminali. La variabilità emoglobinica offre un metodo innovativo per valutare le correlazioni fra anemia ed esiti delle nefropatie terminali. Se gli studi futuri dimostreranno che la variabilità dell'emoglobina ha un'associazione causale con la mortalità, essa potrebbe divenire un nuovo target terapeutico, il cui controllo nei pazienti in emodialisi potrebbe ridurne la morbidità e prolungarne la sopravvivenza. ( J Am Soc Nephrol 2007; 18: 3164-70 )

Ictus: esercizio favorisce tolleranza al glucosio
L'insulinoresistenza e l'intolleranza al glucosio che intervengono spesso dopo un ictus possono essere migliorati da esercizi aerobi. Il presente studio dimostra che i sopravvissuti ad un ictus cronicamente disabili possono far progredire il proprio livello di esercizio fino all'adattamento metabolico entro un periodo di sei mesi. Sono sicuramente necessari ulteriori studi in materia, ma la capacità di invertire parzialmente iperinsulinemia e ridotta tolleranza al glucosio con interventi sullo stile di vita dopo un ictus è clinicamente significativa, data la prevalenza estremamente elevata di questi disturbi ed il loro impatto negativo sulla salute vascolare di questa popolazione. ( Stroke 2007; 38: 2752-8 )

Ipercolesterolemia associata a piccoli ictus
Elevati livelli sierici totali di colesterolo potrebbe favorire lo sviluppo di ictus minori, prevalentemente a carico di piccoli vasi, che hanno una prognosi piuttosto favorevole, piuttosto che di ictus maggiori con prognosi peggiori. In pratica, sussiste una correlazione inversa di tipo quasi lineare fra livelli di colesterolo e gravità degli ictus. L'aumento dei livello di colesterolo è associato anche ad una diminuzione della mortalità. I risultati dello studio supportano l'ipotesi in base alla quale l'ipercolesterolemia sia principalmente associata ad ictus minori dovuti all'occlusione di piccoli vasi. ( Stroke 2007; 38: 2646-51 )

Tireopatie influenzano funzionalità piastrinica
Nei pazienti con patologie tiroidee si osservano alterazioni nella formazione dei legami fra le piastrine, il che potrebbe essere responsabile delle anomalie della coagulazione che si riscontrano in questi pazienti. Questo meccanismo infatti potrebbe essere alla base dell'aumento del rischio di emorragie nell'ipotiroidismo e di problemi cardiovascolari nell'ipertiroidismo. I livelli di fattore di von Willembrand (vWf) risultano alterati nei pazienti con anomalie tiroidee, ed il vWf svolge un ruolo importante nell'emostasi primaria. Questi dati forniscono un'ulteriore razionale per un'attenta terapia farmacologica in questi pazienti. ( J Clin Endocrinol Metab 2007; 92: 3006-12 )

Morte improvvisa giovanile più comune del previsto
La morte improvvisa per cause cardiovascolari nei giovani è più comune di quanto finora ritenuto: in base ad uno studio condotto in Islanda, questo fenomeno è responsabile del 7,5 percento dei decessi non accidentali non violenti nella fascia d'età compresa fra 12 e 35 anni. Il fenomeno è devastante per gli amici e la famiglia del paziente: esso infatti, per sua natura, inizia con manifestazioni di poco conto, e poi la morte sopraggiunge come primo ed unico sintomo della cardiopatia di base. In Italia attualmente sono in corso di applicazione programmi di screening delle patologie cardiovascolari tramite ECG in tutti i giovani atleti che rappresentano un modello da seguire anche per altri paesi. ( J Intern Med 2002; 252: 529-36 )

Ictus, subnutrizione predice esiti clinici negativi
I pazienti ricoverati per ictus ischemico acuto che sono subnutriti all'atto del ricovero hanno elevate probabilità di rimanere tali durante la degenza, incrementandone così il rischio di esiti clinici negativi. La subnutrizione è infatti associata a subnutrizione una settimana più tardi ed a complicazioni immediatamente dopo l'ictus e successivamente ad esiti negativi dopo tre mesi. Benchè la subnutrizione sia comune nei pazienti medici, geriatrici e con ictus, il suo trattamento ha ricevuto finora una scarsa attenzione. Dato che la subnutrizione può influenzare gli esiti clinici, è importante valutare lo status nutrizionale e trattare i deficit soprattutto durante la fase acuta dell'ictus. Diversi studi finora hanno dimostrato che la subnutrizione contribuisce agli esiti clinici, mentre altri non hanno dimostrato alcuna associazione: le basi di questi esiti conflittuali potrebbe trovarsi, almeno in parte, in fattori quali la definizione di subnutrizione e la sua valutazione in varie fasi dell'evento. ( Arch Neurol. 2008; 65: 15-6 e 39-43 )

Ictus più letale nei sovrappeso
I soggetti con elevato BMI ed elevata pressione sistolica presentano un aumento del rischio di mortalità da ictus: il BMI è predittivo di mortalità da ictus nei soggetti in sovrappeso o obesi. Benchè vi sia una forte correlazione positiva fra BMI e pressione sistolica e fra pressione sistolica e mortalità da ictus, l'associazione fra BMI e mortalità da ictus non è lineare. I risultati del presente studio suggeriscono che, al di sotto dei 25 kg/m2 di BMI, gli effetti negativi dell'elevato BMI sulla pressione ematica potrebbero essere controbilanciati da un'associazione inversa fra BMI ed alcuni altri fattori di rischio di ictus. ( Stroke online 2008, pubblicato il 31/1 )

Ictus, i rischi per gli ipertesi coronaropatici
Nei soggetti ipertesi con coronaropatie, i fattori che predicono un aumento del rischio di ictus comprendono razza nera, residenza negli USA e condizioni associate ad una maggiore gravità delle vasculopatie ed ad aritmie. La propensione di ipertensione e coronaropatie ad aumentare il rischio di ictus è stata nota per più di 20 anni, ma la comprensione dei fattori associati al rischio di ictus nei pazienti con queste patologie era finora incompleta. Il presente studio supporta fortemente l'importanza della riduzione della pressione a valori inferiori a 140/90 mmHg per la prevenzione dell'ictus nei pazienti coronaropatici. Gli effetti del controllo pressorio nella riduzione del rischio di ictus risultano evidenti in tutti i pazienti con una qualsiasi delle caratteristiche ad alto rischio identificate. ( Stroke 2008; 39: 343-8 )

L'ormone predice progressione arteriosclerosi
Elevati livelli di estrogeni ed SHBG sono associati ad una riduzione della progressione dello spessore intima-media della carotide nelle donne in età postmenopausale. La forte correlazione fra concentrazioni sieriche di estradiolo ed SHBG ed arteriosclerosi subclinica rappresenta una novità. Gli studi passati non avevano rilevato alcuna associazione fra estradiolo sierico ed arteriosclerosi o qualsiasi altro esito cardiovascolare. Il campione considerato nel presente studio però è più giovane di quello degli studi precedenti, e non presentava alcuna malattia cardiovascolare clinicamente evidente: gli estrogeni infatti potrebbero non mostrare alcun beneficio su un sistema vascolare malato o danneggiato. ( J Clin Endocrinol Metab 2008; 93: 131-8 )

Insulinoresistenza epatica mima sindrome metabolica
L'insulinoresistenza epatica di per sé può essere ritenuta responsabile per la dislipidemia e l'incremento del rischio di arteriosclerosi associati alla sindrome metabolica. Nella sindrome metabolica, dunque, un singolo evento fisiopatologico può produrre tutti i sintomi ed incrementare il rischio di malattie cardiovascolari. E' necessario ora identificare il modo in cui l'insulina altera la sintesi e la clearance dell'HDL ed individuare i target precisi che portano alla sua diminuzione: gli autori intendono attraversare sistematicamente i punti nodali dell'azione dell'insulina per accertare quale sia a controllare colesterolo e glucosio. Identificando ed invertendo le cause, sarebbe disponibile un vero e proprio trattamento per la sindrome metabolica. Il punto di svolta è rappresentato dal fatti che l'insulina è più importante del semplice controllo glicemico. ( Cell Metabolism 2008; 7: 1-10 )

Alimentazione occidentale e sindrome metabolica
I risultati di una ricerca pubblicata di recente hanno confermato ciò che molti da tempo sospettano, ossia che la dieta occidentale, ricca di carne, granaglie raffinate e cibi fritti, incrementa il rischio di sviluppare la sindrome metabolica. Il consumo di latticini, d'altro canto, offre una qualche protezione nei confronti delle anomalie dei fattori di rischio cardiovascolari. Vi sono stai alcuni studi su diversi componenti della dieta ed i loro effetti sulla sindrome metabolica, ma il presente studio estende la prospettiva sull'intera dieta. Nessuno infatti assume un solo tipo di cibo: con la dieta occidentale nel suo complesso, caratterizzata anche da scarso apporto di frutta e verdura, pesce e granaglie integrali, è stato possibile accertare un aumento del rischio di sindrome metabolica. ( Circulation online 2008, pubblicato il 22/1 )

Lo sport allontana trombosi ed embolie
I soggetti che fanno attività sportiva su base regolare presentano un minor rischio di sviluppare trombosi venosa profonda della gamba ed embolia polmonare. La stasi ematica è una delle principali cause della trombosi venosa, ma poco era finora noto sugli effetti della stimolazione del flusso ematico per la prevenzione della trombosi: diversi studi hanno dimostrato la presenza di uno status coagulativo più sano nei soggetti che fanno esercizio regolarmente, il che suggerisce un possibile effetto benefico sul rischio di trombosi. In base al presente studio, tutte le attività sportive di ogni tipo, intensità e frequenza diminuiscono il rischio in misura simile. ( J Thromb Haemost. 2007; 5: 2186-92 )

Con la metabolica si rischia di fibrillare
I soggetti con sindrome metabolica presentano un aumento del 60 percento del rischio di fibrillazione atriale di nuova insorgenza nell'arco di quattro anni e mezzo. Il rischio inoltre aumenta con l'aumentare del numero di componenti della sindrome metabolica che il paziente presenta, e la maggior parte delle componenti è individualmente predittiva della sindrome metabolica stessa. Quest'ultima è fortemente correlata ad ictus, infarto e mortalità sia cardiovascolare che complessiva, e l'aumento dell'incidenza dell'ictus e la maggiore mortalità potrebbero essere parzialmente spiegati dalla sua associazione con la fibrillazione atriale. ( Circulation online 2008, pubblicato il 22/2 )

Fibrillazione atriale: digitale aumenta mortalità
I pazienti con fibrillazione atriale trattati con digitale presentano un aumento del rischio di mortalità. La digitale aumenta la capacità d'esercizio e riduce la morbidità nei pazienti con insufficienza cardiaca, ma non garantisce benefici in termini di sopravvivenza, il che suggerisce che i suoi vantaggi inotropici possano essere controbilanciati da gravi effetti collaterali. L'unico modo per accertarsene sarebbe effettuare uno studio clinico randomizzato controllato sulla digitale nella fibrillazione atriale, con la mortalità come esito primario, ma per ovvie ragioni difficilmente sarebbe possibile effettuare uno studio simile. Sono comunque necessari ulteriori studi in materia: se la digitale ha davvero gravi effetti collaterali, il numero di pazienti che ne verrebbe colpito sarebbe ampio. ( Heart 2008; 94: 191-6 )

Ipertensione oculare e rischio cardiovascolare
Nei pazienti di razza nera trattati per glaucomi ad angolo aperto ed ipertensione oculare sussiste un aumento del rischio di mortalità generale e cardiovascolare: in particolare è risultato problematico l'uso di alcuni beta-bloccanti associati ad un aumento del 71 percento del rischio di morte e del 91 percento della mortalità cardiovascolare. Ciò sottolinea l'importanza di uno stretto monitoraggio e del controllo della pressione oculare entro livelli adeguati in questa ed altre popolazioni a rischio. L'indagine implicava la valutazione di rischi relativi, e quindi i suoi risultati non implicano che i casi trattati comportino dei rischi mentre quelli non trattati ne siano scevri. (Arch Ophthalmol. 2008; 126: 365-70Morbo celiaco, sette nuove varianti a rischio
Un nuovo studio su pazienti con morbo celiaco e soggetti di controllo ha rilevato associazioni fra il morbo celiaco ed otto varianti di suscettibilità al di fuori della regione codificante l'HLA: fra queste, solo la regione IL21-IL21 era stata precedentemente collegata al morbo celiaco, e sette delle otto regioni identificate contengono geni coinvolti nella risposta immune. Le otto regioni non-HLA contenevano polimorfismi di un singolo nucleotide (SNP), con una significatività al di là della soglia statistica per la significatività genomica complessiva. Un SNP vicino IL21 sul cromosoma 4 presenta la più forte associazione con il morbo celiaco. ( Nat Genet online 2008, pubblicato il 2/3 )

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